La Custodia francescana di Terra Santa ha la tradizione di percorrere durante il tempo sacro della Quaresima delle stazioni particolari: si sosta nei santuari della Passione ogni mercoledì (a cominciare dalla seconda settimana di Quaresima) in un itinerario di avvicinamento progressivo al mistero pasquale. Questo significa, nei termini della geografia sacra di Gerusalemme, che si parte da più lontano (nello spazio fisico della Città Santa) e da più indietro nel tempo (nella cronologia dei racconti evangelici), per accostarsi piano piano, quasi con la lentezza di un cammino meditativo, al mistero centrale della salvezza, la Pasqua di morte e risurrezione di Gesù, che si celebra lì dove gli antichi ponevano l’omphalos, l’ombelico del mondo (ancora oggi indicato da una particolare pietra nel Katholikon greco-ortodosso della basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme).
La prima di queste stazioni quaresimali si celebra quindi fuori delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, nel santuario conosciuto con il nome latino di «Dominus flevit», cioè “il Signore pianse”. La seconda si celebra al Getsemani, poi la settimana successiva si entra nel perimetro delle mura cittadine per fare sosta al santuario della Flagellazione, e quindi a quello della Condanna, e così, in sempre maggiore prossimità temporale e geografica, si giunge alle celebrazioni del Triduo sacro nella Basilica del Sepolcro.
Vorrei allora soffermarmi anch’io sulla prima di queste tappe di pellegrinaggio pasquale, il santuario del Dominus flevit.
Il fondamento biblico di questo luogo va ricercato in un episodio raccontato dall’evangelista Luca nel contesto dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme all’inizio della settimana di Passione, in quella che noi chiamiamo la Domenica delle Palme. Nell’approssimarsi alla città, scendendo l’erta del Monte degli Ulivi, Gesù «pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”» (Luca 19, 41-44).
Il pianto di Gesù di fronte alla cecità di Gerusalemme riguardo al tempo della sua visita, cioè al momento in cui Dio veniva a lei per scrutare i cuori dei suoi abitanti e offrire loro la sua salvezza, ricorda il pianto di Dio nel profeta Geremia. È un cantico che la Liturgia della Chiesa mette sulle labbra dei fedeli il venerdì alle lodi mattutine: «I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la vergine, figlia del mio popolo, da una ferita mortale» (Ger 14, 17). Siamo abituati a pensare che il soggetto di questo pianto sia il profeta, ma in realtà il versetto biblico si apre con un invito di Dio a Geremia a riferire una parola che viene da lui stesso. Dunque il profeta descrive il pianto di Dio sulla Città Santa (chiamata “la vergine, figlia del mio popolo”, secondo uno stilema tipico delle culture del Vicino Oriente antico per parlare della città capitale).
Il pianto di Dio (quale mistero!), che ritorna a distanza di secoli a solcare le gote del Figlio di Dio, che sta per iniziare la sua Passione redentrice a favore del suo popolo, non poteva non essere stato registrato dagli antichi discepoli di Gesù. E non solo registrato per iscritto nel racconto del Vangelo di Luca, ma anche fissato nella memoria viva delle pietre di Gerusalemme, antiche testimoni di quel pianto!
È così che la tradizione ha posto lungo la discesa dalla cima del Monte degli Ulivi la memoria dell’evento in un santuario che ne commemorasse il perpetuo ricordo. Purtroppo le più antiche documentazioni scritte, attualmente conosciute, di questo ricordo partono solo dal xiii secolo (Burcardo del Monte Sion; Ricoldus de Monte Crucis). Nel XIV secolo Giacomo da Verona e Niccolò da Poggibonsi descrivono la pietra su cui Gesù avrebbe pianto, così come farà Felix Fabri nel 1480 e Greffin Affagart nel 1533-1534. I frati francescani vi costruirono nelle adiacenze una piccola cappella nel 1890-1891. L’attuale chiesa francescana fu edificata invece nel 1955 dall’architetto Antonio Barluzzi, sui resti di un monastero di epoca bizantina, di cui erano state appena portate alla luce le rovine (databili tra il VI e il IX secolo): in particolare un bel pavimento musivo policromo con rappresentazioni di frutta, fiori e parti di pesci, e iscrizione dedicatoria, ancora oggi visibile ai pellegrini. Al tempo di Gesù l’area doveva essere usata per sepolture, dato l’alto numero di kokim (tombe a fornetto, tipo loculi scavati nella roccia) trovate da p. Bellarmino Bagatti dal 1953 e databili tra il 135 a.C e il 135 d.C., insieme a sepolcri ad arcosolio e a fossa, di un periodo posteriore (IV secolo). In questa area funeraria il celebre archeologo francescano toscano trovò anche molti ossuari, cioè piccole cassette per le ossa, che attribuì alla primitiva comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, in base ai nomi incisi su di esse e ai motivi ornamentali.
Il moderno santuario di Barluzzi spinge il pellegrino a rivivere gli stessi sentimenti di Gesù, grazie all’ampia finestra posta dietro l’altare maggiore, che guarda alla spianata dell’antico Tempio (ora delle moschee). Sull’altare, in mosaico, è rappresentata una chioccia con i suoi pulcini sotto le ali, immagine evangelica che ci aiuta a ricordare la cura continua di Dio per noi, suo popolo ingrato (cfr. Matteo 23, 37-39; Luca 13, 34-35).
di Alessandro Coniglio